Il volume Arte e Videogames. Neoludica 2011-1966, Skira, 2011, a cura di Debora Ferrari, e di un gruppo di collaboratori raccolti attorno alla stessa, nasce come catalogo di un’importante mostra dedicata ad arte e videogioco quale evento collaterale della 54ª Biennale di Venezia. Per intendere l’operazione sottintesa al testo, per una volta, bisogna partire dalla fine e non dall’inizio. Ovvero dall’ultimo intervento contenuto nel libro, quello di Jaime D’Alessandro che illustra le estreme difficoltà, superate grazie ad una contingenza istituzionale propizia e ad un incrocio di circostanze favorevoli, in cui nacque la prima mostra europea (ed italiana) di grande respiro dedicata al mondo dei videogiochi, quella Play, il mondo dei videogiochi, che si tenne a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni nel 2002. La presenza di giovani curatori (e allestitori/scenografi-architetti) aveva reso quell’esperienza insolita, se non davvero unica nel panorama italiano: grandi budget a disposizione di organizzatori giovani, per temi innovativi e non del tutto riconosciuti dal sistema istituzionale dell’arte. Sebbene in seguito siano nate iniziative meritorie nel campo e l’industria videoludica sia cresciuta, sono dovuti passare dieci anni per potere allestire un evento di altrettanto respiro per sede e disponibilità di risorse proprio Neoludica che riparte dal punto in cui Play si era fermata. Neoludica dapprincipio pare fondarsi su due dichiarazioni di poetica che ne giustificano la genesi: la prima è, come già detto, la continuità con Play nel solco delle grandi mostre-evento, segnalando implicitamente la dignità mantenuta, se non rafforzata, del videogioco ad apparire in manifestazioni di questo tipo e la volontà di confermare il rapporto videogioco-arte come proficuo (qui ancora più esplicitamente che nell’evento romano); la seconda è la possibilità di costruire percorsi differenziati e indicare linee di sviluppo possibili del rapporto videogioco-arte-cultura. Dunque, sebbene la mostra abbia aspirato a divenire un punto di riferimento “generale” e una sintesi dello stato dell’arte dei rapporti fra videogioco e arte stessa, all’interno di essa, e del catalogo che ne riassume gli esiti, sono riconoscibili delle precise scelte curatoriali che si traducono in delle precise selezioni di artisti, opere, temi. Qualche anno fa sarebbe stato il videogioco “in quanto tale” ad apparire nell’esposizione (Play, come anche casi successivi, ad esempio la parigina Museogames : une histoire à rejouer, del 2010), mentre adesso i tempi sono maturi per potersi, invece, occupare dei dettagli interni al videogioco e al gioco, selezionare casi specifici, delle volte anche marginali rispetto alla dimensione mainstream del mezzo.
Se questa interpretazione è corretta possiamo provare a verificare quali siano alcune delle linee tematiche intraprese dal testo, seguendo le diverse ramificazioni dell’evento. La prima è la questione della identità – possibile, impossibile o instabile – “nazionale” del videogioco, ossia l’oggetto dei due saggi gemelli iniziali di Domenica Quaranta e Matteo Bittanti – gli studiosi che con più costanza negli ultimi anni si sono occupati dei rapporti fra arte e videogioco in Italia. Il primo disegna dei brevi profili degli artisti italiani più significativi nel campo in questione, il secondo prova a problematizzare, rispetto ad esso, il concetto di italianità.
Un altro nucleo di interventi è quello dedicato all’homo ludens. Ci si riferisce segnatamente al saggio di Ruggero Eugeni, rivolto al processo di ludicizzazione dei media contemporanei, e quello di Chiara Di Stefano, attento alla fusione fra gioco ed attività sociale, con particolare riferimento al serious gaming.
Un terzo gruppo di saggi è dedicato a memoria, conservazione e obsolescenza del medium (Charans, Mc Manus, Fallica 3).
Un quarto gruppo di analisi, quello centrale negli obiettivi dei curatori, è quello rivolto al rapporto fra arti e videogioco, fortemente propugnato quale strutturale nei saggi di Debora Ferrari ed Elena Di Raddo.
Un ulteriore insieme di interventi, in una specificazione del precedente, si occupa di rapporti fra videogioco e “altre arti”, come la fotografia (Casero), l’architettura (in uno stimolante studio sui concetti di non-luogo e iper-luogo applicati al videogame di Alessandra Coppa), la letteratura – nella specifica declinazione del romanzo picaresco (Nicolini). Vi è un’altra articolazione di questo gruppo in cui si analizzano un’artista o un’opera d’arte, propriamente intesi, che abbiano relazioni con la dimensione ludica (You can’t stop o Metamorfosi neoludiche per Marianna Santoni, quali testi più estesi, oltre a un certo numero di brevi medaglioni dedicati a singole opere e artisti)
Una quinta serie di interventi potrebbe definirsi come l’indagine di alcuni prodotti specifici. Si tratta di analisi dedicate a testi con una spiccata vocazione artistica pur rimanendo “videogiochi” e non opere d’arte ispirate agli stessi (si parla, in particolare, della serie Oddworld e delle realizzazioni dei Tale of Tales).
Una sesta sezione comprende quelli che potremmo definire testimonianze esperienziali (Falica 1, D’Alessandro, Balzerani) o testi-Manifesto, dalla spiccata evocatività, che prevale nettamente sulla vocazione analitica, e, stilisticamente, impregnati di umori che richiamano una funzione poetico-artistica più che descrittiva (Luca Traini)
Quanto qui rappresentato non ripercorre pedissequamente la successione dei saggi così come presentata dai curatori, quanto piuttosto una possibile ricostruzione alternativa. Da questo si può dedurre una delle caratteristiche del testo: l’essere un patchwork di approcci, metodologie, temi. Il numero alto degli interventi (anche in virtù della loro relativa brevità) favorisce possibili aggregazioni libere degli stessi, seguendo un percorso di lettura non necessariamente lineare: si potrebbe intravedere in questa possibile strategia di lettura un principio interno di “ludicizzazione” del testo, solidale all’oggetto indagato. Sebbene poco sopra se ne sia provata una catalogazione, questi stessi interventi, ancora una volta in virtù della loro scioltezza e sintesi, non sono sempre catalogabili come appartenenti ad un genere o uno stile scientifico, piuttosto che cronachistico o testimoniale. Verrebbe deluso, dunque, chi si attendesse un libro che segua i criteri usuali della delle edited collection accademiche, o un catalogo di una mostra che agisca secondo criteri storico-filologici, vagliando possibili, timide, nuove acquisizioni storiche (secondo il “modello Scuderie del Quirinale”per le grandi mostre pop dei pittori di età rinascimentale e moderna). Quanto si ha è piuttosto un libro “d’avanguardia”, schierato e politico in un certo senso (nel suo sostegno alla “artisticità” del mezzo videoludico in continuità con quelle delle arti visive propriamente dette e nel suo essere “ludico” come detto), ma anche un libro “artistico” in sé. Va fatto cenno, infatti, alla, molto accurata e gradevole, veste estetica: carta patinata, come a catalogo si addice, e capitoli introdotti da due pagine vuote, dai colori accesi, sulle quali risalta una scritta, che trapassa dalla prima alla seconda pagina, nella quale è illustrata una delle funzioni che possiamo trovare su un registratore o player video o nei contenuti speciali di un film homevideo o di un videogioco stesso (Rec, Rew, Play, Forw, Extra Content, Bonus). In ogni capitolo la prima pagina di ciascun saggio o introduzione alle immagini viene presentata nello stesso colore con cui vengono proposte le due pagine introduttive del capitolo stesso. Le illustrazioni, a colori, sono molte e di ottima qualità, sia all’interno dei saggi più ampi, con funzione illustrativa o di accompagnamento, che con valore autonomo, in piccole raccolte di immagini di solito riconducibili ad un unico autore, introdotte da una breve nota critica. Questa ultima sezione, assieme a quella dei testi-Manifesto, dunque, conferma quanto accennato in precedenza: di un catalogo di una mostra si tratta e dunque di un “libro d’arte”, ma anche di “libro-arte”, di un libro-gioco, che richiama alla mente qualche stimolante provocazione avanguardistica.
–Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –
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