Un campo innevato, un eliporto, container metallici, telecamere di sorveglianza. Basta una rapida occhiata alla schermata e il giocatore di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots 1 fa un salto indietro nel tempo di dieci anni, tornando ancora una volta ad infiltrarsi nella base militare di Shadow Moses. La grafica è quella della prima PlayStation, una grafica che all’epoca era lo stato dell’arte, e che ora mostra tutte le sue grossolane imperfezioni. I dieci anni trascorsi hanno visto susseguirsi due generazioni di console e innumerevoli cambiamenti dell’estetica e dei linguaggi videoludici. Il mondo è cambiato nella vita reale così come nel gioco.
Passato lo stupore e l’ondata di “nostalgia implosa” (per usare un’espressione della Slovin 2), il giocatore riprende il controllo del personaggio e si dirige, quasi automaticamente, verso la struttura oltre l’eliporto, dove si imbatte inaspettatamente in un soldato. Preme il tasto X per eseguire una capriola in avanti e neutralizzarlo prima che possa dare l’allarme, ma Snake si limita a sdraiarsi a terra, offrendo la schiena ai proiettili dell’avversario.
L’allerta è ormai scattata, si avvicinano altre guardie, il giocatore prova ad affrontarle in un corpo a corpo, ma l’avatar non risponde correttamente ai comandi. È tutto sbagliato, un climax di tensione, come uno di quegli incubi nei quali non riesci a muoverti, provi ad urlare ma la voce ti si strozza in gola, sei paralizzato. Poi, un attimo prima che Snake cada sotto i colpi dei soldati nemici, il giocatore capisce perché non riesce a controllare il suo avatar: lo schema dei tasti nel primo Metal Gear Solid 3 era completamente diverso da quello a cui è abituato ora.
Sembra essere game over 4, ma attraverso una dissolvenza incrociata il primo piano del volto statico e inespressivo del giovane Snake muta di colpo in quello rugoso, dettagliato e soprattutto molto più fotorealistico di Old Snake. In effetti, era davvero un sogno. Snake stava sognando Shadow Moses, stava ricordando, come il giocatore, l’avventura vissuta anni prima in quel campo innevato.
Mascherata da semplice omaggio nostalgico ai fasti della saga, la sequenza del sogno di Shadow Moses in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots è in realtà una riflessione sul medium videoludico. Se in passato, con Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty 5, il designer e regista Hideo Kojima aveva già cominciato la sua disamina critica del medium attraverso eleganti e articolati stratagemmi narrativi e metanarrativi, con continui rimandi alle tematiche della simulazione e della virtualità, in questo caso si serve della componente visiva del videogioco per svelarne la natura fittizia. È impossibile, infatti, non notare l’enorme differenza qualitativa che intercorre tra la grafica del titolo per PlayStation 3 e quella del suo predecessore del 1998, e già questo basta a ricordare al giocatore che quello che ha di fronte è un artifizio, una finzione 6.
Se superficialmente, infatti, rivedere la vecchia Shadow Moses suscita nostalgia, ad un livello più profondo, quasi inconscio, la visione è disturbante, un vero pugno nell’occhio, perché quell’immagine rozza e abbozzata che abbiamo davanti non corrisponde all’immagine mentale che avevamo conservato, un’immagine che parlava di grafica fenomenale e realismo estremo. Il fatto, poi, che i controlli siano diversi da quelli a cui siamo ormai abituati – cosa che può probabilmente portare allo scenario prima descritto – è un’ulteriore beffa: messi a confronto con un’interfaccia di controllo che appare frustrante e grossolana, non possiamo che prendere atto dell’evidenza, ossia che Metal Gear Solid altro non è (e altro non era) che un semplice videogioco.
Il sogno di Shadow Moses ci fa dono del passato e al contempo lo decostruisce. Sembrerebbe un controsenso: perché rompere l’incanto del giocatore e fargli improvvisamente prendere atto della natura virtuale dell’avventura che sta fruendo? Perché giocare col giocatore è la firma di Kojima, la sua cifra stilistica. È con Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty che Kojima comincia 7 ad utilizzare la sua opera per riflettere sul medium videogioco stesso, trattando spesso, come già detto, le tematiche della simulazione e della virtualità, e innescando un complicato gioco di sovrapposizione tra avatar e giocatore che porta quest’ultimo a porsi domande sul suo ruolo nella storia, ma anche sulla sua identità e personalità. Il confine tra ciò che è vero e ciò che è reale si fa confuso (sia per l’avatar che per l’utente), quando i personaggi del gioco cominciano ad interpellare direttamente il giocatore. Probabilmente, la scena più inquietante e surreale del titolo è quella che ritrae il Colonnello e Rose (in realtà intelligenze artificiali) che si prendono gioco dell’utente, invitandolo a spegnere la console e facendogli notare che sta giocando da troppo tempo: un tentativo di influenzare il corso della missione a livello diegetico agendo però sulla sessione di gioco nella realtà fisica dell’utente.
Un simile escamotage era presente già nel primissimo Metal Gear 8, e questo è solo uno dei tanti casi in cui un elemento di uno dei giochi della serie ricorre poi nei seguenti. Gran parte delle situazioni presenti in Metal Gear Solid, ad esempio, sono riprese da Metal Gear 2: Solid Snake 9, al punto da far assomigliare l’episodio per Playstation ad una sorta di remake del predecessore. Ancora, nelle sezioni finali di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, dei finti game over spiazzano l’utente, non diversamente da come accadeva nel prequel durante lo scontro con Psycho Mantis, caratterizzato da falsi reset della console e dalla necessità di inserire il controller nel secondo slot per avere la meglio sull’avversario. Lo stesso scontro con Psycho Mantis viene reinterpretato poi in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, quasi trasformato in un easter egg.
Gli esempi di iterazione di tematiche, archetipi e tòpoi narrativi all’interno della serie sono numerosi. In quasi tutti gli episodi ricorre la figura del ninja, impersonato rispettivamente da Kyle Schneider, Gray Fox, Olga Gurlukovich e Raiden. Lo stesso accade per le sequenze che si svolgono in tunnel o gallerie: in Metal Gear Solid, Snake fugge dal suo gemello Liquid a bordo di un’auto in una galleria; in Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, invece, a Raiden toccherà attraversare una sezione dell’Arsenal Gear curiosamente denominata colon ascendente. Anche in Metal Gear Solid 3: Snake Eater 10 ritroviamo una simile situazione due volte: una in cui il protagonista evade da una prigione attraverso le fogne, correndo lungo il condotto principale e lanciandosi infine nel vuoto, scampando alla morte per un pelo, e un’altra nel tunnel di Krasnogorje, dove invece si ritrova ad arrampicarsi su una lunghissima scala a pioli – scena che omaggia quella della fuga di Snake da Outer Heaven in Metal Gear. Infine, in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, Snake attraversa un lungo corridoio irradiato di microonde potenzialmente letali.
Questi elementi ricorrenti si collocano a metà strada tra la citazione e il riciclo di idee, ma tra i due è forse quest’ultimo l’aspetto più interessante. Il riutilizzo di elementi di gameplay e stratagemmi narrativi è la prassi all’interno dell’industria dei videogiochi, dominata dall’imperativo del more of the same e dallo sfruttamento di formule già sperimentate a discapito di idee innovative 11. Ripresentando, in maniera così palese e sfacciata da sembrare quasi parodistica, personaggi, temi e situazioni all’interno dei vari episodi della serie, Kojima sembra voler commentare con ironia il costante riciclaggio di contenuti nel mondo dei videogiochi, mirando a criticare sia l’industria che i consumatori finali. L’ironia sta, appunto, nel fatto che lui stesso ne fa un utilizzo smodato, ma lo fa guidato da una consapevolezza critica, elaborata all’interno di una sorta di (auto)citazionismo d’autore.
Alla luce delle considerazioni finora fatte, emerge che la sequenza del sogno di Shadow Moses si inserisce perfettamente all’interno della poetica di Kojima, che ancora una volta riflette sul medium videoludico, facendolo in questo caso col mezzo più palese, quello che spesso (e, altrettanto spesso, a sproposito) viene considerato l’aspetto più importante di un videogioco: la grafica.
Fulcro della tecnofilia di molti appassionati di videogiochi, la grafica è da sempre una delle componenti fondamentali nella valutazione di un’opera multimediale interattiva, sia da parte della critica specialistica che del vasto pubblico, soprattutto quando mira a riprodurre fedelmente la realtà. Ma la ricerca smodata del fotorealismo è un’arma a doppio taglio, dal momento che più un gioco promette immagini che ricalcano il mondo fisico, più il minimo difetto grafico ne enfatizza la natura sintetica. Non è un caso che la Nintendo abbia sempre prosperato soprattutto grazie a giochi dalla grafica in stile cartoon, e che negli ultimi anni si stiano vedendo sempre più titoli realizzati in cel shading, pixel art e altri stili grafici che permettono di bypassare il fotorealismo ottenendo comunque risultati piacevoli all’occhio. D’altra parte, “le cose per cui si va al cinema, essere coinvolti nella narrazione, essere commossi dai personaggi, ecc., non sono il risultato di una soglia di realismo che è stato raggiunto (dopotutto i film in bianco e nero e i cartoni hanno la stessa caratteristica di farci coinvolgere)” 12, e ciò è valido anche per i videogiochi. Anzi, forse per i videogiochi questa regola vale ancora di più, vista la rapidità con cui i mondi virtuali scivolano nell’obsolescenza. La scena del sogno di Shadow Moses contiene un messaggio ben preciso: mai farsi irretire dalle false promesse della tecnologia. Un messaggio che, come fa notare la critica videoludica Leigh Alexander 13, ritroviamo anche più avanti nel gioco, quando scopriamo che Johnny riesce ad eludere il controllo SOP perché non si è mai fatto iniettare delle nanomacchine.
Sognando Shadow Moses, il giocatore viene spinto a riflettere su come la tecnologia applicata ai videogiochi abbia sempre promesso qualcosa di illusorio, dalla tanto vagheggiata realtà virtuale all’ossimorico film interattivo. Abbiamo ottenuto, invece, schiere di sparatutto e giochi d’azione tutti simili tra di loro che sono andati ad influenzare la stessa serie di Metal Gear. Moltissimi elementi in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, dalla videocamera di gioco libera al vasto arsenale a disposizione, per arrivare infine ad alcune ambientazioni, suggeriscono un forte ascendente da parte del genere sparatutto, mentre l’annunciato Metal Gear Rising: Revengeance 14 abbraccia pienamente la filosofia hack ‘n slash, segnando una rottura definitiva col passato della serie.
Quei pochi minuti di gioco raccontano di un passato videoludico ingenuo e genuino, un sogno/ricordo (di Snake, del giocatore, ma anche di Kojima) nostalgico e malinconico del tempo in cui i videogiochi erano ancora in una sorta di scalpitante adolescenza. Ma il sogno è finito, interrotto dal frastuono degli spari di un fucile.
-Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –
- Kojima Productions, Giappone, 2008. ▲
- Slovin, R. (2002). Hot Circuits. Reflections on the 1989 Video Game Exibition of the American Museum of the Moving Image. In M. J. P. Wolf (a cura di). The Medium of the Video Game. Austin: University of Texas Press, p. 139. Estratto tradotto in italiano dal sottoscritto. ▲
- Konami, Giappone, 1998. ▲
- Non è necessario morire nel sogno per procedere con la partita: se si riesce a passare oltre le guardie senza scatenare l’allarme, il sogno si interrompe nel momento in cui Snake si infila in un condotto dell’areazione per entrare all’interno della struttura. La situazione qui descritta è solamente una delle possibili, forse la più probabile in una prima partita. ▲
- Konami, Giappone, 2001. ▲
- È da sottolineare che Metal Gear Solid, diversamente dalla maggior parte dei videogiochi della sua epoca, non faceva uso di filmati prerenderizzati per le scene di intermezzo, ma utilizzava sempre e comunque il motore grafico del gioco, per evitare uno “scollamento visivo” tra le varie sequenze e garantire così coerenza stilistica. Dieci anni dopo, Kojima mirerà ad ottenere l’effetto contrario, ossia porrà a confronto due grafiche molto differenti qualitativamente, allo scopo di mettere a nudo la natura videoludica della sua opera. ▲
- Avvisaglie di questa tendenza dell’autore si possono, in realtà, facilmente individuare anche nei capitoli precedenti della serie, ma è con questo che Kojima porta la riflessione ad un livello più avanzato e profondo. Per approfondimenti, si veda Fraschini, B. (2003). Metal Gear Solid. L’evoluzione del serpente. Milano: Unicopli, pp. 115-138. ▲
- Konami, Giappone, 1987. ▲
- Konami, Giappone, 1990. Cfr. Adkins, N. (31/01/2012). Lost in Translation? A look at the digital re-dux and the trends that inspire them. 1UP.com. Disponibile online: http://www.1up.com/do/blogEntry?bId=9095000 ▲
- Konami, Giappone, 2004. ▲
- Cfr. Bittanti, M. (11/06/2011). “PRINTED MATTER: Il REPLAY uccide il PLAY: la retromania videoludica (Rolling Stones)”. Mattscape.com. Disponibile online: http://www.mattscape.com/2011/11/printed-matter-il-replay-che-uccide-il-play-la-retromania-videoludica-rolling-stone.html ▲
- Grigoletto, F. (2006). Videogiochi e cinema. Interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione. Bologna: Clueb, p. 80. ▲
- Citata in Bissell, T. (2010). Extra Lives. Why Video Games Matter. New York, NY: Pantheon Books, p. 187. ▲
- Platinum Games, Giappone, 2013. ▲
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