Giuseppe Frazzetto insegna storia dell’arte contemporanea e discipline afferenti le nuove forme mediali presso l’Accademia di Belle Arti di Catania ed è fra i pochi in Italia ad accostare organicamente all’approccio umanistico nei confronti delle arti contemporanee, quello al videogioco. Questi interessi si esercitano chiaramente nel testo Molte vite in multiversi, nel quale Frazzetto si occupa di videogiochi come in Per una teoria dell’IDHE. Introduzione ai videogiochi 1, del quale questo libro è al contempo un’espansione e una contrazione. Una contrazione nel senso della riproposizione dei nuclei teorici essenziali, e una espansione giacché il videogioco in questo testo non è il centro dell’argomentazione, quanto una presenza costante che emerge di quando in quando all’interno di una teoria dell’arte generale (o, più nello specifico, delle “nuove forme dell’arte”). I videogiochi si collocano in questa impalcatura organicamente e in maniera non dissimile dalle altre forme più convenzionalmente accettate come “artistiche”.
Da questa breve introduzione si può inferire quanto il testo di Frazzetto afferisca alla dimensione estetologica più che al campo dei game studies. Dunque è con questo spirito che bisogna approcciarsi al libro di Frazzetto: con la consapevolezza di leggere un testo che non vuole confrontarsi con gli studi specialistici fin qui sviluppati sui videogiochi, quanto piuttosto illustrare le molte forme dell’arte contemporanea, cercando di individuare alcuni operatori concettuali che riassumano lo spirito e facciano ordine, o meglio costituiscano dei punti di riferimento (delle possibili “categorizzazioni”), in una situazione frammentata.
Una delle tesi forti del libro è proprio la moltiplicazione e frammentazione delle identità nell’arte e nell’estetica contemporanee: identità frantumate e molteplici nel versante dei testi a disposizione dei fruitori, ma anche dei mondi finzionali che si costruiscono. Frazzetto sostiene che ci si trovi ormai in una vera e propria società del remix, del mash-up, una realtà intensiva che è rimescolamenti di elementi fisici ed “e-mmaginali” (sic).
L’autore parla di Entreverse, ovvero un “multiverso delle esperienze connesse all’intrattenimento”, di cui il videogioco sarebbe parte essenziale. Egli ci ragguaglia sulla società “e-mmaginale”, riferendosi all’incrocio fra immaginazione, visualizzazione e realtà delle relazioni che si intrattengono nel mondo. Quella dell’Enterverse (entertainment universe) è una società in cui tutto ormai è estetizzato. Non si scorge più un senso predominante – il visuale si accompagna all’orale e all’aptico – e i media generano “eventi”. L’estetizzazione diventa quasi “anestetizzazione”: molti stimoli, tutti di ordine estetico, nei quali le strutture gerarchiche si perdono, riducendo tutto ad un valore comune.
Quanto è evidente già da queste poche righe di descrizione, è la vocazione “nomotetica” di Frazzetto, piuttosto destabilizzante per chi è abituato ad anni di critica prima, e teoria accademica dei videogiochi poi. Frazzetto rinomina, usando diffusamente neologismi, alcune delle più assestate categorie: il videogioco diventa IDHE (Interactive Digital Hybrid Entertainment), l’avatar è definito toon, il giocatore performer. Alla base di questo lavoro ridefinitorio sta la volontà di delucidare con maggior precisione la funzione delle nozioni rinominate pur percorrendo, consapevolmente, il rischio, in assenza di glossario, di disorientare il lettore a confronto con un metalinguaggio del tutto interno al testo.
Ci soffermeremo solo sulle parti dedicate al videogioco del libro, ricchissimo di stimoli e penetranti illuminazioni. Nella parte iniziale del testo Frazzetto riporta i risultati di una ricerca sul campo sulle relazioni sociali che si formano nel giocare un MMORPG, in particolare World of Warcraft 2. Assistiamo ad una descrizione, di grande dettaglio e precisione, stilisticamente nel solco degli studi di Jenkins sulle fandom, delle dinamiche del gioco. Seguono una serie di analisi, che possono essere ascritte al metodo socio-antropologico sul maschilismo e razzismo dei giocatori, sulla “socializzazione senza contatto”, sulla costruzione di un sistema gerarchico e di regole, sulla costruzione del senso di appartenenza nelle gilde, sulla mancata opposizione Noi Vs Altri, sulla ben nota dipendenza suscitata dal gioco, sulla corrispondenza fra apparenza (il “vestiario”) e realtà, sulla corrispondenza fra esistenza e consumo.
WoW, come altre forme della cultura di massa contemporanea, sarebbe l’esplicitazione della pulsione alle “Molte Vite”, o alla percezione di un ambito vitale “ulteriore” della contemporaneità. In seguito Frazzetto accennerà all’identità segreta del giocatore del MMORPG, assumendola come espressione dell’identità tipica della mash-up life. Tuttavia si tratterebbe di un’identità “volontaria”, non imposta dalla necessità di cambiare prospettiva e che suscita con una sottile imposizione la modernità (intesa come sistema totalizzante e para-totalitario). Tale “mascheramento” nel gioco sarebbe un modo per osservare “obliquamente” e, in certo modo, per opporsi da singolo alla forza totalizzante del collettivo.
Il nuovo mondo estetico è quello della deep remixability 3, quello dove ogni oggetto è remixato, dove si sviluppa una passione per la “collezione” di oggetti, ciascuno di quali assume un “valore” (una dimensione estetologica), ma ciascuno dei quali, di conseguenza, ha la medesima natura e qualità dell’altro. Riferendosi proprio ad un videogioco, Planescape Torment 4, Frazzetto sostiene che ogni oggetto della contemporaneità (un SUV, un telefonino, una Action Figure derivata da un videogame) sia un “portale”, un rizoma che connette quell’oggetto specifico a infiniti altri. Il singolo, attraverso il collezionismo e l’estetizzazione di ogni oggetto, introietta il collettivo e dunque il suo assoggettamento ad esso. Tutto è disponibile ed accessibile e l’immersione nella fantasmagoria delle merci corrisponde alla dispersione del soggetto. Tutto è mescolato (Frazzetto accenna alla promiscuità dei crossover a sostegno di questa tesi, individuando come esempio emblematico Kingdom Hearts 5) e quanto si percepisce è il desiderio del soggetto, impossibile da realizzarsi, di ricondurre tutto ad unità.
Un concetto che percorre per intero il teso di Frazzetto è quello di “incomune”. La contemporaneità e le sue espressioni sarebbero al contempo qualcosa di noi tutti (in comune) e qualcosa di estraneo (incomune). I videogiochi sono uno dei sintomi dell’incomune: non esistono o vincoli al visibile, tutto è percepito come “comune”, “qualsiasi”, pur nella difformità. Norma e abnorme, visto e inimmaginabile si confondono. L’immagine “feroce”, quella della tanto deprecata violenza nei videogiochi non ha nulla di diverso da una foto di Diane Arbus o di Serrano: tutti questi prodotti estetici dimostrano la “visibilità del mostruoso”.
Nella seconda parte del testo Frazzetto si sofferma sul videogioco come forma mediale, più che su giochi singoli, e sul rapporto fra videogioco e giocatore. L’autore accosta esplicitamente il videogioco all’arte e alla filosofia, individuando in queste forme culturali delle attività improduttive che, tuttavia, si sceglie di esercitare liberamente e che funzionano come oppositive alle logiche del collettivo (sono attività di “spreco”, fin quando non entrano nel circuito del mercato). Il videogiocatore come il pensatore o l’artista, pur non essendo fuori dalla società, resistono alle logiche del collettivo fino ad un certo stadio.
Frazzetto introduce il discorso sul videogioco come medium all’interno di un quadro riassuntivo delle teorie di Caillois, Huizinga e Turner. Sostiene che un performer/videogiocatore si trova al contempo in un luogo immaginario e generico, e in una localizzazione reale: è lui stesso a compiere le azioni necessarie. L’avatar/toon è il mediatore fra il singolo e una rete di altri singoli, informazioni, notizie, emozioni. Il videogioco non è solo uno spettacolo da osservare, ma un’attività da compiere. Il rapporto toon/performer è un rapporto simbiotico con uno strumento – simile a quello samurai/katana -. Il perfezionamento dell’avatar è possibile solo attraverso l’attività del videogiocatore interna al videogioco. Gli “strumenti” (gli avatar nel gioco) sono portali attraverso cui si giunge a una percezione peculiare di se stessi nel mondo: sono luoghi eterotopici.
In ultimo, per l’autore, il videogioco è simbolicamente un modo per recuperare l’ “aura” all’opera d’arte sotto forma di coolness (il gioco e il videogioco sono dei “miti”, e mostrano una “lontananza” una superiore potenza della tecnica che si esplicita) ed è una sorta di tarantismo digitale. Nel videogioco, come nel rito del possedimento delle tarantolate, sono presenti dei combattimenti che simbolicamente rappresentano il conflitto fra singolo e collettività. Il videogioco sarebbe una danza liberatoria delle dita, ove il collettivo che “morde” è tenuto a bada dalla danza stessa. Il singolo ritorce il collettivo contro se stesso e lo rende ineffettivo. Si identifica con esso (uno strumento omeopatico) e al contempo cerca un luogo di identificazione singolare che si opponga alla collettività.
Nel testo di Frazzetto accanto ai vg/IDHE sono investigate molte condizioni estetiche che qui non si è potuto menzionare (dal parkour, alla moda, ai geek/mob, all’arte contemporanea). Il libro è complesso e denso, con una natura non meno ibrida delle caratteristiche del nuovo mondo estetico che l’autore individua. Si tratta di un testo di filosofia e di estetica anzitutto, in cui i videogiochi sono una variabile fra molte che descrive una tesi generale. In questo è da riscontrarsi il suo ruolo aurorale (almeno in Italia) e la sua innovatività. In quanto tale va letto: certamente estraneo, e a volte confliggente e dialettico o volutamente provocatorio, rispetto ai game studies, può essere uno sprone e un viatico per filosofi, estetologi e storici dell’arte per affrontare un nuovo oggetto senza pregiudizi e rendendolo organico ad una riflessione estetica composita e generale.
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