Su molti server di World of Warcraft 1 ci sono toon (“personaggi” pilotati dal giocatore) “famosi”. Il caso più significativo è quello di Kungen (cioè “re”, toon del giocatore svedese Thomas Bengtsson 2, leader prima dei Nihilum poi di un’altra celebre gilda, Ensidia. Questa peculiare fama settoriale è certamente legata alla struttura degli MMORPG, al loro essere basati su una specifica forma di socializzazione. Tuttavia ci si potrebbe chiedere: il giocatore capace di guidare un suo toon fino alla “celebrità” è un “produttore”? Un prosumer? Certo, non è “produttore” del software. Qui è in questione qualcosa di molto diverso.
L’entusiasmo col quale non pochi studiosi salutarono l’apparente “trionfo” del prosumer sembra essersi molto raffreddato. Come si sa, la questione è relativa al diffondersi di una nuova figura: il “consumatore” divenuto anche “produttore”. Fra i vari neologismi inventati per indicare questa sorta di centauro, ha avuto la meglio appunto il termine prosumer (sincrasi di producer e consumer), diffondendosi più di altri vocaboli, come pro-am (producer + amateur). Il successo della parola è legato all’influenza di Alvin Toffler, per il quale l’attività dei prosumer caratterizza la “terza onda”, seguente a quella degli old media e a quella dei mass media 3.
Il prosumer è certamente il protagonista del cosiddetto Web 2.0. Su YouTube, su Facebook, su Wikipedia ecc. è davvero incalcolabile il numero dei fruitori che si fanno anche produttori di contenuti. Si tratta di un fenomeno inatteso, che pone una molteplicità di problemi. Ad esempio, una questione specifica riguarda una possibile minaccia per il sistema dell’arte, che può apparire del tutto indifeso rispetto al dilagare di questa produzione. Raramente è possibile rintracciarvi qualità, competenza, ispirazione e, in definitiva, “ricerca”; tuttavia, le opere sembrano naufragare nell’oceano di milioni se non miliardi di immagini.
Un altro esempio è la questione sollevata recentemente da alcuni interpreti, fra cui Wu Ming. In sintesi: il prosumer sarebbe un lavoratore sfruttato. “Sei uno degli oltre settecento milioni di utenti che usa Facebook? Bene, vuol dire che quasi ogni giorno produci contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali. Sei parte del general intellect di Facebook. Insomma, Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?” 4. E sulla questione sono possibili opinioni perfino opposte. Ad esempio: “gli esiti comici dell’argomentazione di Wu Ming discendono da un errore. L’errore è chiamare “pluslavoro”, o in generale “lavoro”, ogni forma di generazione di contenuto da parte degli utenti su Internet. Ora, questo errore non è innocente. L’articolo di Wu Ming partecipa alla costruzione di un mito politico, il mito del proletariato cognitivo. In sintesi: l’operaio della conoscenza, traducendo poesie o pubblicando le foto delle sue vacanze su Internet, si troverebbe sullo stesso piano (o più esattamente, entro la stessa classe) dell’operaio vero e proprio, come quello che gli ha assemblato il computer” 5.
Qui è in questione anche la parcellizzazione molecolare del mercato, secondo il principio della cosiddetta “coda lunga”. La produzione digitale (in rete, ma anche o soprattutto quella fisica, legata a supporti cartacei, a DVD, ecc.) permette la “pubblicazione” di un numero estremamente ridotto di copie di un testo, di un brano musicale, ecc. Al limite: una copia. Si modifica così del tutto il rapporto tradizionale fra investimento sulla produzione culturale, distribuzione, vendita.
Ma dicevo che molti entusiasmi sembrano essersi raffreddati. Quali? In primo luogo quelli legati alla speranza (o forse alla velleità) che l’intervento del prosumer consenta una sorta di redenzione dei prodotti dell’industria culturale. Forse l’autore che in termini più espliciti ha manifestato questa speranza è Henry Jenkins (si sa, in Italia ha avuto grande diffusione il suo Cultura convergente 6). La provenienza “dal basso” dell’intervento dei prosumer appare un fatto in sé positivo – anche perché i prodotti dell’industria sembrano essere considerati come qualcosa di “naturale” che viene poi elaborato dagli utenti. Ad esempio, il folklore e i materiali filmici di Star Wars sono considerati come dati di fatto neutrali, e di cui in fondo importa poco: conta l’azione (metalinguistica) degli appassionati, conta la produzione di fan fiction derivata da Star Wars. Il problema della qualità dei prodotti dell’industria appare così neutralizzato. Se si tratta di materiali scadenti, la produzione di secondo grado degli utenti in ogni modo li sottoporrà a un lavacro purificatore.
Questo carattere “redentore” della produzione dal basso è il presupposto implicito di molte analisi correnti: per dirne una, non è difficile coglierlo nell’attesa del “liberatorio” sorpasso di Internet sulla televisione. L’argomento ha una sua ragione d’essere, e però è necessario ricordare che i prosumer possono avere atteggiamenti molto diversi. Possono essere interessati specificamente al prodotto che ri-utilizzano, oppure all’uso di quei materiali per scopi eterogenei (per mettersi in mostra, per dimostrare una tesi, ecc.).
Ma che rapporto c’è fra tali fenomenologie (e fra le numerose altre qui non citate) e l’ambito specifico del videogioco? A prima vista forse nessuno. Il prosumer di cui abbiamo fatto cenno è un “utente-produttore” di materiali culturali creativi e formalizzati. In altri termini, il prosumer fotografo realizza fotografie, il prosumer scrittore scrive romanzi, il prosumer che realizza fan fiction è un regista sui generis, e così via. Applicato all’ambito dei videogiochi, tale modello chiamerebbe in causa gli appassionati capaci di produrre videogiochi. E certamente qui si sfiora un tema di straordinaria importanza, giacché spesso si ha a che fare con l’intervento creativo di non professionisti: basti pensare al fenomeno delle patch e degli add-on, o alla moltitudine di mod più o meno elaborati. Per non parlare dei machinima.
Ma il prosumer e l’artista sono analoghi, in quanto produttori? La domanda può apparire insensata. O meglio, la risposta può apparire legata essenzialmente a nozioni come quella, già citata, di “qualità”. La produzione del prosumer spesso è scadente, impacciata, approssimativa; ma sembra difficile non attribuire un giudizio positivo all’aliquota sia pure ridotta di materiali appunto “di qualità”. Una foto riuscita lo è sia nel caso in cui il fotografo sia celebre, sia nel caso in cui sia un oscuro appassionato. Del resto si tratta di una fenomenologia ricorrente nell’ambito dell’arte contemporanea. Si potrebbe perfino allargare la nozione di prosumer fino ad includervi i creativi non ancora inseriti nel sistema dell’arte (ad esempio perché giovani), o coloro che per un motivo o per un altro si defilano. Potrà risultare straniante dirlo, ma in fondo non erano prosumer Cézanne e Van Gogh? Non lo era Francesca Woodman?
Questa argomentazione è però legata ad un punto di vista orientato all’utente. Per noi interpreti ciò che conta è in primo luogo la concreta formalizzazione con cui possiamo avere un rapporto. Cosa importa, in fin dei conti, per noi, se le immagini, le poesie o i romanzi con cui ci confrontiamo siano prodotti da un professionista o da un prosumer?
Ma una caratteristica essenziale del videogioco è il coinvolgimento performativo del giocatore (che qui chiamerò perciò performer). Il videogioco non è (solo) una narrazione, non è (solo) uno spettacolo, non è (solo) una configurazione multimediale, bensì è una narrazione che diventa spettacolo mediante l’intervento attivo del performer.
Rispetto a quanto detto finora, qui si mostra qualcosa di radicalmente diverso. Dal punto di vista soggettivo, il prosumer non è un artista, uno scrittore, un fotografo, ecc. Essere professionisti in quei campi implica un modo di essere e di produrre che il prosumer nonostante tutto non condivide. Il pittore dilettante non verrà invitato a Documenta, il romanziere prosumer non pubblicherà con una major, il guru che dispensa le sue perle di saggezza su Facebook dovrebbe pur ricordare che i suoi lettori saranno poche decine o perfino unità, spersi da qualche parte nella “coda lunga”…
Cosa avviene invece nell’ambito dei videogiochi? Visitando forum e chat dedicati, ci si rende subito conto del fatto che atteggiamenti diffusi e di solito buffi e/o fastidiosi rivelano qualcosa di profondo. Mi riferisco in primo luogo alle vanterie (dette a volte epeen). La vanteria, ovvero la ricerca del cool, caratterizza molti altri ambiti: si pensi a quanto avviene in quasi ogni discussione sul calcio. Ma nel caso dei videogiochi la vanteria non riguarda i propri campioni (calciatori, ciclisti o politici che siano), bensì si concentra sullo stesso performer. Il “campione” non è una figura surrogata, proiettiva; viceversa, è semmai un modello su cui misurare le proprie prestazioni.
Ritorniamo a Kungen. Dal punto di vista della sua funzione simbolico/sociale non è paragonabile a Messi o a Vettel. Non è separato da un’invalicabile distanza rispetto al fan. L’appassionato di calcio non scende in campo nella Champions League, l’appassionato di automobilismo non guida una monoposto. Al contrario, qualunque performer è (almeno in linea di principio) nelle stesse condizioni di Kungen e degli altri personaggi “leggendari” dell’ambito del videogioco.
Sebbene senza introiti milionari, sequenze di divorzi e di ricoveri in rehab, diamanti nei denti e limousine, ogni performer potenzialmente è una star.
– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –
- Blizzard, USA, 2004. ▲
- Cfr. http:// href=”http://www.wowwiki.com/Server:Tarren_Mill_Europe/Kungen”>www.wowwiki.com/Server:Tarren_Mill_Europe/Kungen. ▲
- Toffler A. (1980) The Third Wave. New York, NY: Bantam Books. ▲
- Wu Ming 1 (26 settembre 2011). Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple. Disponibile online: href=”http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241″>www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241. ▲
- Ventura R. A. (28 settembre 2011). La quarta dimensione. Disponibile online: href=”http://www.eschaton.it/blog/?p=4770″>www.eschaton.it/blog/?p=4770. ▲
- (2007). Milano: Apogeo. ▲
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