Immersione, immersività, presenza, embodiment. La teoria dei media audiovisivi ha generato un intero vocabolario per descrivere il fenomeno del sentirsi altrove, incorporati in un mondo di secondo livello. Una varietà terminologica certamente necessaria, ma che in sostanza fa riferimento alla tendenza di alcuni media a costruire luoghi abitabili, esplorabili, contingenti ma separati dallo spazio occupato dal nostro corpo. Non sorprende questa piccola ossessione teorica, dal momento che l’idea di un rapimento semiotico, di un’immersione accostata all’illusione e all’inganno precede abbondantemente i media digitali e il videogioco. Nell’ottobre del 1929 Green Peyton Wertenbaker pubblicava all’interno della rivista Amazing Stories una delle sue opere più conosciute, The Chamber of Life. Spesso citato come vaticinio dell’avvento della realtà virtuale, il racconto è – insieme al più noto Brave New World di Aldous Huxley, pubblicato solo tre anni più tardi – una summa delle paure dell’immersione mediale, descritta come un incrocio tra l’incubo febbrile, il sogno lucido e la discesa agli inferi.
Il videogioco, raggiunta ormai quasi vent’anni fa una supposta maturità tridimensionale, è il medium su cui la riflessione teorica sull’immersività si è esercitata con maggiore abnegazione negli ultimi due decenni. Forse perché lo si immaginava perfettamente integrato in dispositivi di realtà virtuale, o più semplicemente perché i mondi tridimensionali videoludici, al contrario di quelli del cinema, erano davvero abitabili. In ogni caso, il videogioco sembra ancora essere quanto di più vicino alla “camera della vita” abbia prodotto la tecnologia. Il seminale lavoro di Janet Murray sulla narrazione nei media digitali, Hamlet on The Holodeck 1, a partire dall’evocazione del ponte ologrammi di Star Trek (1966), sembra abbracciare l’idea di esperienze incorporanti, di un processo di immersione in una realtà “as different as water is from air”, testimoniando di un interesse per l’immersività che risale all’alba dei game studies e che di volta in volta ha avuto bisogno di coniare nuovi termini – ergodicità, interattività, agency – per ritagliarsi il proprio spazio all’interno del discorso più generale di media e immersione.
In-Game. From Immersion to Incorporation 2 – il volume di Gordon Calleja – si propone di contribuire a una riflessione meno legata a istanze di natura estetica e umanistica e quindi più radicate all’interno delle specificità del medium. Calleja costruisce un modello che definisce di player involvement articolato secondo una tassonomia piuttosto stringente che fa derivare il processo di immersione dalla collaborazione di elementi cinestetici, spaziali e ludici. Il modello proposto dall’autore sembra acquisire una certa efficacia operativa a partire dal restringimento di campo operato da Calleja nelle prime pagine del lavoro:
Digital games constitute a broad family of media objects, some of which diverge so much in their constituent characteristics that they cannot all be taken as one homogeneous mass. Altough we attach the label game to both Grand Thef Auto IV (Rockstar North, 2008) and Tetris (Pajitnov, 1985), the differences between them are so significant that any discussion that considers them as equivalent media objects is prone to make generalizations that impede analytical rigor (p. 3).
Dunque, In-Game – in controtendenza rispetto a molti lavori simili – si costituisce a partire da una riduzione dello sguardo, una presa di coscienza della molteplicità delle forme dell’intrattenimento digitale. L’autore si propone dunque di indagare la questione dell’immersività secondo un processo di opposizione rispetto a costrutti teorici precostituiti – cerchio magico, divertimento, engagement – per poi applicare il framework costruito unicamente per i videogiochi tridimensionali e per i quali la riflessione di Calleja si rivela in effetti particolarmente efficace.
Oltre alla disseminazione e alla varietà dei campioni possibili, lo studio del fenomeno dell’immersione presenta un secondo, forse più radicale, problema. L’incorporamento – questo il termine preferito da Calleja – di un soggetto in un ambiente virtuale sembra richiedere una collaborazione tra tratti di design e predisposizione cognitiva. In questo senso la teoria dell’immersion nei videogiochi sembra soggetta a una strana illusione ottica: se vede i tratti formali degli oggetti indagati non riesce a scorgere i percorsi cognitivi attivati dal giocatore, e viceversa, tanto da dover ricorrere a un artificio teorico dal complesso equilibrio per giustificarsi:
Incorporation thus operates on a double axis: the player incorporates (in the sense of internalizing or assimilating) the game environment into consciousness while simultaneously being incorporated through the avatar into that environment. Put it another way, incorporation occurs when the game world is present to the player while the player is simultaneously present, via the avatar, to the virtual environment (p. 169).
Ridotta ai termini della frizione tra ricerca formale/testuale e studio della ricezione la questione sembra ricalcare il dibattito acceso da Miguel Sicart nell’ultimo numero di Game Studies con l’articolo Against Procedurality 3. Possiamo studiare i giochi e dimenticarci dei giocatori? Tuttavia il problema è ben più complesso. Per Calleja si tratta di scegliere un baricentro su cui basare la propria riflessione piuttosto che una trincea teorica. La soluzione proposta dall’autore sembra a prima vista efficace. L’idea di esperienza progettata (designed experience), pur rimanendo nell’area gravitazionale della ricerca formale (in fondo si parla di design) prevede una sorta di giocatore modello, che si ipotizza possa scegliere percorsi resistenti o alternativi rispetto ai dettami del designer. Tuttavia, è proprio qui che il problema si fa evidente. Infatti, la soluzione adottata tradisce il lavoro di sottrazione alla base del modello teorico nel momento in cui per tenere insieme il tutto entro i confini sicuri dell’ergodicità, si sbarazza troppo in fretta dell’idea di un fruitore modello per poi tornare a recuperarla:
It is only in ergodic media that we find this kind of agency, and only in virtual environments of the sort we have discussed that such a presence in the virtual world is possible. A book or a movie is unable to acknowledge a reader’s or viewer’s presence, nor can it offer them agency, and so it cannot afford incorporation (p. 173).
Forse anche per questo, all’interno di una riflessione che sembra poterne fare a meno, i riferimenti a un corpus di interviste condotte con giocatori sembrano rispondere a esigenze retoriche più che teoriche. Allo stesso tempo, si dimostra superfluo il ricorso a nuove terminologie e a nuovo un apparato teorico che forse non è così nuovo – si pensi al lettore modello di Eco.
La riflessione condotta da Calleja sul tema scivoloso dell’immersività nei videogiochi risponde in modo soddisfacente ad alcune delle domande ricorrenti circa questo fenomeno. L’ibridazione tra critica estetica dell’oggetto-videogioco e analisi dei processi di involvement extra-ludici permette all’autore di costruire un’impalcatura teorica efficace e coerente. Nell’ultimo capitolo del volume, Calleja propone l’utilizzo del termine incorporation in sostituzione di immersion. La volontà sembra essere quella di spazzare il campo dai romanticismi cyberpunk legati all’immersione e all’utopia della realtà virtuale, ma la proposta di Calleja non è scevra da comprensibili velleità strategiche. La proposta di un avvicendamento terminologico avanzata dall’autore non è forse di grande eleganza – soprattutto all’interno di un lavoro lodevolmente sintetico e agile – ma costituisce una mossa inevitabile in un’area, quella dei game studies, il cui vocabolario ha l’aspetto e le dinamiche di un tabellone di Risiko.
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