Nel tentativo di seguire le orme dello storico successo di Street Fighter II 1, gli sviluppatori della Midway Games Inc. finirono, loro malgrado, per costringere l’opinione pubblica ad affrontare il problema dell’impatto sociale dei contenuti dei prodotti per l’intrattenimento digitale.
A qualche mese dalla diffusione negli arcade statunitensi di Street Fighter II, pietra miliare dei picchiaduro della casa di sviluppo giapponese Capcom, il programmatore Ed Boon ed il designer John Tobias in forza a Midway lanciarono l’idea di sviluppare un “picchiaduro” made in the USA 2, basato sulla pellicola di arti marziali Bloodsport 3. Non essendo riuscita ad accordarsi con la casa cinematografica per l’uso dei diritti del film, Midway decise allora di sviluppare indipendentemente un videogioco di combattimento. Circa un anno più tardi, il gioco raggiunse le sale giochi con il titolo altisonante di Mortal Kombat 4.
La prima versione di Mortal Kombat raggiunse in poche settimane una popolarità paragonabile a quella di Street Fighter II, riuscendo tuttavia a distinguersi da quest’ultimo per via di una resa grafica più realistica (in linea con le originali intenzioni di integrazione con il linguaggio cinematografico) e per la brutalità iperbolica e sanguinaria. La grottesca estetica da B-movie di Mortal Kombat, a fronte di quella asettica dell’animazione giapponese offerta da Capcom, non fece altro che rendere ancora più appetibili i litri di sangue grumoso, gli sbudellamenti, le menomazioni e le torture al pubblico di giovani di sesso maschile che affollavano le arcade halls.
Il successo e le atrocità del titolo Midway restarono confinati tra le variopinte pareti delle sale giochi fino all’anno successivo, in corrispondenza della prima conversione di Mortal Kombat per una console domestica (il SEGA Genesis). A quel punto, il suo distintivo fiume di sangue digitale non poté più essere trattenuto dagli argini di una subcultura e finì con l’inondare i soggiorni buoni della middle-class americana. Nel dicembre del 1993, le frequenti proteste contro l’industria videoludica, accusata di vendere ai minori materiale moralmente reprensibile, portarono il Congresso degli Stati Uniti ad organizzare un’udienza con i rappresentanti dei più influenti distributori di software per l’intrattenimento 5. L’azione politica fu sostenuta, in particolare, dai senatori Joe Lieberman e Herb Kohl, che ne dichiararono pubblicamente il fine: quello di proteggere le famiglie americane dalla crescente e preoccupante diffusione di Mortal Kombat e di altre efferate produzioni videoludiche (è interessante notare che uno degli antenati più illustri dei moderni “sparatutto” in prima persona, il sanguinolento Doom 6 della statunitense Id software, venne rilasciato per PC in quello stesso dicembre).
Dopo circa un anno di denunce, pubbliche udienze e reciproche accuse, i distributori di software ed il Congresso degli Stati Uniti si accordarono per l’istituzione di una commissione federale avente l’obiettivo di creare un sistema di rating, omologo per tutta l’industria del videogioco, che fosse in grado di informare gli acquirenti sui contenuti espliciti dei singoli prodotti. L’ERSB (acronimo inglese per “commissione per il rating del software per l’intrattenimento”) iniziò la sua opera di recensione il primo settembre del 1994.
Dalla fondazione dell’ERSB, non è infrequente rilevare l’uso demagogico e strumentale della congettura secondo la quale i videogiochi sarebbero in grado di stimolare comportamenti antisociali da parte di associazioni di consumatori e di alcuni politici opportunisti (varrebbe la pena ricordare qui la campagna mediatica contro la violenza videoludica lanciata dall’avvocato e attivista Jack Thompson a partire dal 2006) 7. Dal canto loro, gli sviluppatori, con l’intento evidente di proteggere sia i propri interessi economici sia la libertà di esprimersi come meglio credevano, continuarono – e tutt’oggi continuano – a contestare l’esistenza di una effettiva e verificabile correlazione tra violenza virtuale e violenza digitale (e/o l’esistenza di un effetto anestetico dei videogiochi nei confronti di atrocità e tragedie non-virtuali).
Uno degli argomenti più frequentemente utilizzati da questi ultimi in difesa della propria libertà creativa è costituito dall’interpretare i mondi 8 videoludici come allegorie interattive, visione secondo la quale la violenza virtuale sarebbe da intendere unicamente in senso metaforico. Inoltre, sempre secondo gli sviluppatori, qualunque giocatore sarebbe naturalmente in grado di comprendere come il videogioco non sia altro che un sistema formale, una macchina da feedback, e non sia né una rappresentazione descrittiva del mondo in cui viviamo, né un tentativo di persuadere i giocatori di come questo dovrebbe essere. In altre parole, la posizione di chi difende il medium videoludico si può riassumere con l’idea che i mondi virtuali e quelli reali siano separati e non-comunicanti e che, pertanto, qualsiasi tentativo di stabilire relazioni causali tra loro sia irragionevole. In quest’accezione, i densi spruzzi di sangue a cui Mortal Kombat ha abituato una generazione di videogiocatori sono da interpretare come parte del sistema estetico grazie al quale il “picchiaduro” comunica ai propri giocatori l’andamento della partita. Non diversamente dagli “sparatutto”, il feedback di tipo “ematico” permette ai giocatori di identificare – in maniera integrata nella struttura allegorica del gioco – un colpo subìto, l’entità del danno arrecato, una combinazione di colpi messa a segno con successo etc. Ne consegue che ciò che è considerato osceno in Mortal Kombat ha essenzialmente la stessa funzione cognitiva dell’esplosione della propria navetta durante una partita di Asteroids 9 o lo sgretolarsi di un blocco di mattoni digitali presi a testate da Super Mario 10.
In altre parole, per sviluppatori e videogiocatori considerare lo spargimento di sangue virtuale come un’incitazione alla violenza denota un’inadeguata comprensione del medium. Per alcune associazioni di consumatori e fazioni politico-religiose, invece, l’esplicita rappresentazione videoludica di scene di sesso o violenza, spesso condite da comportamenti razzisti o vandalici, sono effettivamente in grado di stimolare i giovani ad un comportamento aggressivo ed antisociale. L’assenza di studi conclusivi in merito negli ultimi due decenni non ha contribuito al dirimersi di quella che è passata alla cronaca come the videogame controversy.
Personalmente, sebbene lavori come game designer e passi un buon quarto delle ore coscienti delle mie giornate in mondi digitali, credo che la difesa adottata da industria e videogiocatori sia contraddittoria e poco sostenibile. Permettete che vi faccia un esempio: con un’intensità crescente negli ultimi dieci anni, l’attenzione dei media ha contribuito in maniera primaria alla valorizzazione di prodotti interattivi e digitali comunemente raggruppati sotto il termine generico di serious games (giochi seri), ovvero di applicazioni digitali interattive che, pur non escludendo il divertimento, hanno obiettivi ritenuti socialmente utili come educazione ed informazione. Ciò ha permesso, sia in campo accademico sia in quello dello sviluppo di software, di attrarre fondi destinati allo studio e alla realizzazione di serious games. Queste esperienze digitali “ludiche ma non troppo” fanno precisamente leva sulla possibilità di importare nel mondo comunemente indicizzato come “mondo reale” comportamenti e riflessioni sviluppati in ambienti virtuali. Da queste premesse, i “giochi seri” vengono utilizzati per facilitare o supportare scopi pratici, ad esempio la formazione e la promozione di prodotti o ideologie, l’addestramento (nella ricreazione di scenari di guerra per piloti da caccia o di interventi particolarmente complessi per squadre di pompieri etc.).
Nelle parole della ricercatrice e game designer Jane McGonigal, il fondamentale credo alla base della produzione e dell’impiego di serious games è quello secondo cui questi “possano renderci migliori e cambiare il mondo” 11. Indipendentemente dal background teorico 12 o dalle differenti inclinazioni professionali, accademici e sviluppatori concordano sul fatto che i videogiochi possano avere un impatto positivo sulla società. Tuttavia, né l’industria né l’accademia sembrano mostrare la stessa apertura mentale o lo stesso entusiasmo nell’accettare effetti meno desiderabili e socialmente accettabili del riuscire con successo a scongiurare un attacco glicemico o a perfezionare la propria conoscenza delle procedure di atterraggio per un certo tipo di velivolo. Che io sappia, nessun videogioco è mai stato pubblicizzato per i propri successi nell’addestrare adolescenti all’utilizzo di fucili d’assalto o nell’informarli in maniera dettagliata e realistica su come piazzare scommesse su corse automobilistiche clandestine.
Controversie di questo genere non sono specifiche o unicamente ascrivibili all’avvento di Mortal Kombat o dei media digitali in generale. Lo studioso dei media Marshall McLuhan (1911-1980) descrisse, nel suo famosissimo libro Understanding Media del 1964 (tradotto in italiano con il titolo Gli stumenti del comunicare), un simile tipo di conflitto ideologico-generazionale a seguito della diffusione di massa del medium televisivo. McLuhan osserva che le controversie circa la maggiore o minore appropriatezza o desiderabilità di un certo medium difficilmente riguardino le effettive qualità e possibilità del medium in questione: quello che in linea di massima viene dibattuto pubblicamente sono invece i contenuti di quel medium. In un memorabile passaggio di Understanding Media, questo genere di controversie viene additato come “la voce del sonnambulismo contemporaneo” 13. Secondo McLuhan, infatti, quello che sia i detrattori sia i sostenitori di un medium stentano a capire è che sul lungo periodo il contenuto ha un’importanza relativa e secondaria. Essere a favore o meno di certi utilizzi di un medium dipende da gusti, ideologie ed in generale dallo specifico contesto storico-culturale. Ciò che è invece veramente in grado di influenzare il pensiero individuale e l’orditura del tessuto sociale in modo durevole e significativo è ciò che il medium stesso consente: il modo in cui il suo linguaggio metaforico organizza la nostra conoscenza del mondo in categorie ed è in grado di incorniciarla, estenderla o restringerla, deformarla, colorarla.
Nel caso specifico dell’intrattenimento digitale, ed in linea con l’osservazione di McLuhan di cui sopra, sostengo che la maniera in cui l’interazione con i computer cambia il nostro modo di pensare e di comportarci consista precisamente nella possibilità che essa dà ai nostri cervelli di mettersi in relazione con mondi che sono modulari, combinatori, ripetibili ed ontologicamente indipendenti da quello “attuale” (cfr. nota 8). Mondi che sono strutturalmente diversi da quello discreto, univoco e relativamente stabile a cui siamo “destinati” come creature biologiche.
“Mentre le scienze moderne provano a rispondere alla domanda di come sia la realtà e di come questa possa essere controllata”, scrisse il filosofo olandese Jos De Mul, “le scienze modali postmoderne concentrano la loro attenzione su ciò che è possibile, ovvero sulle molte maniere in cui il mondo può essere ri-progettato e manipolato” 14. Ciò che, allora, i videogiochi (o in generale il media digitali) hanno da offrire sono gli indizi esperibili del fatto che questo mondo non sia l’unico con cui è possibile rapportarsi come esseri umani. Da un punto di vista analogamente orientato verso la modalità, il filosofo ceco-brasiliano Vilém Flusser (1929-1991) sostenne che
[s]tiamo iniziando a liberarci dalla tirannia di una presunta realtà. L’atteggiamento servile per cui noi, come soggetti, ci mettiamo di fronte alla realtà oggettiva per dominarla deve lasciare spazio ad un nuovo tipo di approccio.(. . .) Stiamo affrontando una seconda rinascita dell’umanità, un secondo Homo erectus . E questo Homo erectus , che gioca con il caso nel tentativo di trasformarlo in necessità, potrebbe essere chiamato Homo ludens 15.
– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –
- Capcom, Giappone, 1991. ▲
- Boon, E. (2010). Bonus Round (episodio 409 parte 2), video-intervista con Ed Boon (video), disponibile online: href=”http://www.gametrailers.com/bonusround_player.php?ep=409&pt=2″>http://www.gametrailers.com/bonusround_player.php?ep=409&pt=2. ▲
- Newt Arnold, USA, 1988. ▲
- Midway Games, USA, 1992. ▲
- Kohler, C. (29 luglio 2009). July 29, 1994: Videogame Makers Propose Rating Board to Congress. Wired. Disponibile online: href=”http://www.wired.com/thisdayintech/2009/07/dayintech_0729/#more-2779″>http://www.wired.com/thisdayintech/2009/07/dayintech_0729/#more-2779. ▲
- Id Software, USA, 1993. ▲
- Thompson, J. (8 gennaio 2006). Violent video games feed unhealthy ideas to young kids. Tacoma News Tribune. ▲
- In questo articolo, la definizione del termine “mondo” che intendo adottare è quella di “un gruppo di entità e di relazioni tra le dette entità caratterizzate da persistenza in un certo contesto spazio-temporale”. Ritengo che questa definizione sia conforme alla posizione (post)fenomenologica difesa nel resto dell’articolo e sia anche sufficientemente flessibile da potere abbracciare tanto realtà virtuali quanto quella che viene comunemente indicizzata come “attuale”. La necessità di includere la relativa stabilità della presenza di certe entità e la consistenza delle relazioni tra di esse nella definizione proposta è funzionale al fine di operare una distinzione metodologica tra mondi e sogni o allucinazioni. ▲
- Atari, USA, 1979. ▲
- Nintendo, Giappone, 1985. ▲
- Cfr. McGonigal, J. (2011). Reality is Broken – Why Games Make Us Better and How They Can Change the World, London: Penguin Press HC, e McGonigal, J. (marzo 2010). Gaming can change the world, TED talk. Disponibile online: href=”http://www.ted.com/talks/jane_mcgonigal_gaming_can_make_a_better_world.html”>http://www.ted.com/talks/jane_mcgonigal_gaming_can_make_a_better_world.html. ▲
- Cfr. Sicart, M. (2011). Against Procedurality. Game Studies, 11(3). Disponibile online: http://gamestudies.org/1103/articles/sicart_ap. ▲
- McLuhan, M. (1994). Understanding Media: The Extensions of Man. Cambridge, MA: MIT Press. Estratti tradotti in italiano dal sottoscritto. ▲
- De Mul, J. (2010). Cyberspace Odyssey: Towards a Virtual Ontology and Anthropology. Cambridge, MA: Cambridge Scholars Publishing, pp. 16-17.Estratto tradotto in italiano dal sottoscritto. ▲
- Flusser, V. (1992). Das Ender der Tyrannei. Arch + Zeitschirft für Architektur und Stadtebau, 111, 20-25, p. 25. Estratto tradotto in italiano dal sottoscritto. ▲
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