Identità, immersività, patologia e tecnologia positiva: oltre i luoghi comuni sui videogioco
Stefano Triberti e Luca Argenton, entrambi dottorandi di ricerca, l’uno presso l’Università Cattolica, l’altro presso l’Università Bicocca di Milano, hanno dato alle stampe, per le edizioni Apogeo, un testo dedicato ad una branca peculiare dello studio dei videogiochi. Il titolo è semplice e immediato: Psicologia del videogioco. Come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento. Nel leggerlo un videogiocatore esperto potrebbe nutrire qualche perplessità. Se ne potrebbe derivare l’impressione dell’ennesimo testo, come spesso accade per produzioni provenienti da ambito pedagogico-psicologico, poco avvezzo con il medium, che riproduce esclusivamente dibattiti giornalistici sensazionalistici, dando loro una patina di scientificità. Il sottinteso di questi testi, spesso, è una condanna tout court del mezzo videoludico, con annessi moralismi del caso.
Quanto appena descritto è l’esatto opposto dell’operazione effettuata dai due psicologi di scuola milanese. Già dall’introduzione il lettore-videogiocatore viene rassicurato dal programma dei due studiosi, e soprattutto dal loro percorso privato. I due autori in questione si dichiarano dei giocatori e mostrano di volersi allontanare dai luoghi comuni che si addensano nelle pubblicazioni videoludiche di approccio psicologico. Il programma, al termine della lettura, si può dire essere stato pienamente rispettato. Il lettore-videogiocatore si trova davanti ad un testo che si muove con sicurezza fra i riferimenti videoludici e prova a riassumere la letteratura scientifica di settore senza infingimenti su possibili effetti negativi o inutili panegirici del mezzo, né tantomeno prese di posizioni ideologiche preconcette contro il videogame in sé.
Più nello specifico il lavoro dei due studiosi affronta quattro ampie variabili, a ciascuna delle quali è dedicato un capitolo del libro: identità, immersività, emozione e cognizione, psicopatologia.
Nel capitolo dedicato all’identità i due studiosi affrontano il tema della possibile costruzione dell’io suscitata dai prodotti interattivi digitali. I videogiochi favoriscono la costruzione di un’identità proiettiva, il modo per osservarla meglio è soffermarsi sulla dimensione dell’ “avatar”. Il soggetto, di fronte al proprio avatar, può sviluppare con esso differenti relazioni. Un avatar può essere di tipo meramente relazionale, ovvero sostanzialmente identificativo e stabile (come quello che si attiva attraverso l’immagine che appare ad individuare il parlante in una chat), o coprire una funzione agentiva, intessendo una rete di relazioni emotive e comunicative con il soggetto umano che lo interpreta (è il caso della maggior parte dei videogiochi). Gli avatar, poi possono essere a bassa personalità, risultando una pura estensione del videogiocatore, o ad alta personalità, divenendo dei veri e propri alter ego del videogiocatore (per esempio Duke Nukem). In seguito i due studiosi connettono questa teoria dell’avatar a una mappatura delle posizioni rispetto all’identità sociale e personale e al sé reale ed ideale, e si pongono il problema della specificità identitaria del gioco online e delle comunità che si formano attorno ad esso.
Il capitolo che affronta il tema dell’immersività si concentra inizialmente sull’effetto Proteus – attraverso il quale il videogiocatore tende ad assumere, anche nella vita reale, alcune caratteristiche del proprio avatar – e sul “senso di presenza”, connesso alla percezione del sé e dell’altro in un ambiente virtuale. La parte più interessante del capitolo si occupa del concetto di “flow”, ossia dell’assorbimento totale che si ha nel giocare a determinati prodotti, al punto da trascurare il fatto di essere in un contesto virtuale, avvertendo vere emozioni e coinvolgimento. Il testo sviluppa un interessante percorso che illustra come possano modularsi skills, obiettivi e richieste del videogioco, dimostrando come l’effetto di flow possa essere programmato in fase di game design e che esso derivi da determinazioni psicologiche, legate al modo in cui il gioco è costruito. Se ne deduce la conclusione che giochi “poveri” risultino, talvolta, maggiormente coinvolgenti di prodotti che hanno alla base ingenti investimenti, proprio perché sono maggiormente efficaci nel produrre il “flow”. In conclusione di capitolo Triberti e Argenton ci segnalano sia possibile anche un effetto di “networked flow” (flow di gruppo, condiviso), in determinati ambienti, come quelli dei MMORPG.
Il capitolo dedicato a emozione e cognizione è il più complesso. Considerato il notevole sforzo di sintesi degli autori di studi su svariate variabili del tema posto, la lettura è meno agevole e il materiale, forse, meno organico che nei precedenti capitoli, tuttavia, sebbene da esso non si possa derivare una tesi coerente, si possono trarre numerosi spunti di interesse su singole questioni. Se ne segnalano alcune a titolo esemplificativo: la funzione pedagogico-educativa del videogioco e la necessità di apprendere regole e ruoli per incrementare le capacità di apprendimento, il problem solving, e il controllo del comportamento; le possibilità di empowerment di alcune capacità cognitive grazie alle sollecitazioni provenienti dai giochi; lo specifico conseguimento di abilità in ambito della cosiddetta “solution finding” (in particolare all’interno di alcuni generi come le avventure grafiche); la possibilità di proporre approcci edonici ed eudamonici attraverso il videogioco, ovvero suscitare condizioni di benessere, felicità e realizzazione personale; un apprendimento basato “sul fare”, attraverso l’acquisizione delle regole di un gioco e della capacità di orientamento entro di esso. Nell’ultima sezione del capitolo i due ricercatori riassumono brevemente, appoggiandosi ad alcuni esempi concreti, il funzionamento e i benefici cognitivi e pedagogici desumibili dall’edutaiment, e in particolar modo dal serious gaming, nelle sue variegate sfaccettature (advergaming compreso).
Il capitolo finale, dedicato alla psicopatolgia del videogioco, è quello più sensibile a potenziali opposizioni da parte di lettori mossi da posizioni ideologiche differenti. Nel capitolo si tratta, naturalmente, dei temi più noti in quest’ambito: violenza nei videogiochi, dipendenza dai videogiochi, videogiochi come causa di patologie quali obesità, psicosi, disturbi dell’attenzione. L’approccio dei due studiosi è rigoroso, e, al contempo, flessibile. Argenton e Triberti riportano le maggiori esperienze di ricerca in campo, senza acquisire una posizione preventivamente favorevole all’uno o altro paradigma. Quello che concludono, sulla base dei dati acquisiti, è che esiste una possibile connessione fra comportamenti patologici e uso dei videogiochi, o dei media in generale, ma non esiste una causalità diretta fra la fruizione del medium e l’adozione di un comportamento distorto. La patologia psichiatrica ha sempre cause complesse e integrate (fattori ambientali, sociali e predisposizione personale sono le dimensioni preminenti in questi casi). In soggetti già predisposti alla psicosi, laddove l’uso dei videogiochi fosse una delle esperienza significative della vita dei soggetti a rischio, potrebbero favorire l’acutizzarsi delle patologie. Dunque il videogioco non è la causa di una patologia, ma, come ogni altra dimensione della vita umana, può contribuire alla sua composizione.
I singoli capitoli sono accompagnati da interviste finali ad alcuni studiosi particolarmente rilevanti per le questioni affrontate in ciascun ambito. Non sempre queste interviste sembrano essere ben integrate con i contenuti dei capitoli (talvolta sembrano davvero in opposizione), o particolarmente approfondite su un piano scientifico (sono ovviamente discorsive, com’è proprio del genere cui appartengono). Tuttavia le interviste hanno un effetto retorico, spezzando il continuum del discorso accademico, e alleggerendo la lettura attraverso un effetto di variatio. Fra i pochi appunti che possono essere mossi al testo, ben curato da un punto di vista editoriale per altri versi, vi è la non corrispondenza, talvolta, di nomi e date fra richiami bibliografici nel corpo del testo e riferimenti presenti in bibliografia. Si tratta, in realtà, di peccati veniali: la serietà e circospezione dell’ultimo capitolo, può essere uno dei modi in cui si può riassumere l’approccio dell’intero testo. I due studiosi provano ad effettuare una sintesi delle principali ricerche in campo nell’ambito della psicologia dei videogiochi, riducendola a poche linee essenziali, e offrendo un possibile quadro teorico. Si tratta di un primo tentativo, che può fungere da pietra miliare per i futuri studi possibili. Particolarmente apprezzabile è lo stile piano, lineare, che rende il testo fruibile non solo dagli specialisti in ambito psicologico, ma lo rende particolarmente utile anche a studiosi di videogiochi, o semplici videogiocatori.
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Federico Giordano – federico.giordano@unistrapg.it
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