Stiamo vivendo gli anni della gamification: game designers e teorici del game design dibattono sui modi di trasporre meccaniche di gioco in servizi, applicazioni e marketing tools non strettamente legati al gioco. La gamification è finalizzata a determinare nel giocatore/utente un comportamento. Nella retorica che supporta la gamification traspare una visione del gioco fortemente orientata al reward, cioè alla gratificazione in termini di premi e obiettivi. Senza dubbio esistono casi studio che supportano questo approccio anche nel game design tradizionale (cioè non social games, mmog 1, o advergame): pensiamo, come caso-tipo, a Peggle di PopCap che fa sostanzialmente della gratificazione l’attività principale di gioco.
La letteratura che tratta la teoria e la pratica del game design, spesso, riflette questa visione insistendo sul forte legame tra meccaniche e obiettivo di gioco. Esistono però esempi che non si adattano a questo modello: pensiamo ai giochi di Tale of Tales come The Path o Graveyard nei quali l’esperienza del gioco è, per dichiarata intenzione degli autori, avulsa dall’obiettivo apparentemente espresso dalle regole. Anche nel trattato/manuale Rules of Play di Katie Salen e Eric Zimmermann (2003) si parla di meaningful play in senso assoluto, a prescindere dal raggiungimento o meno degli obiettivi di gioco.
È ragionevole pensare, quindi, che alcuni designer di giochi possiedano conoscenze empiriche su come rendere avvincente un loro prodotto al di là degli obiettivi di gioco. Il nostro articolo suggerisce che questa modalità di progettazione, che deriva le meccaniche di gioco (implementate) dalle dinamiche emergenti (progettate), sia fortemente collegata alla traduzione di schemi e modelli mentali, fenomeni psicologici e teorie del comportamento in dinamiche di gioco. La nostra teoria è che un gioco sia avvincente quando l’esperienza di questo tipo di dinamiche avviene, sul piano cognitivo-psicologico, in maniera analoga a quella delle illusioni ottiche sul piano percettivo, cioè quando esiste un contrasto tra aspettative e realtà conosciuta.
Nell’articolo descriviamo quindi, con esempi, come alcune dinamiche cognitive possono essere applicate nel game design, generando attività di gioco dove la gratificazione non deriva dal raggiungimento dell’obiettivo ma dall’esperienza del contrasto tra i propri modelli mentali e quelli impiegati dal gioco. L’ambizione è quindi formalizzare in sapere trasferibile quello che è, oggi, una cultura empirica esclusivamente connessa all’esperienza del singolo.
Il ruolo della mente
Vilayanur S. Ramachandran e William Hirstein in The Science of Art (1999) descrivono una teoria neuroestetica della bellezza legata a ciò che la mente trova “interessante” e catalogando le modalità in cui uno stimolo evoca un’esperienza artistica (o meglio, estetica) attraverso otto leggi. Tra queste, di particolare interesse per questo articolo è quella del problem-solving percettivo: secondo questa legge è più gratificante la scoperta di un oggetto/caratteristica in seguito a un’attività impegnativa, ovvero quando la scoperta non è ovvia ma richiede, appunto, un problem-solving. Questa idea non è certo sorprendente, ma è fondamentale nella definizione di ciò che è bello e ci aiuta a comprendere il motivo per cui consideriamo le illusioni ottiche interessanti. Le illusioni ottiche sono fenomeni per i quali la misurazione fisica di un valore (colore, luminosità, continuità di un segno) non corrisponde a ciò che viene percepito. Le illusioni sono un esempio di eventi o artefatti che sono interessanti poiché ci parlano del modo in cui li percepiamo, cioè in generale del modo in cui la mente conosce il mondo che la circonda. Allo stesso modo crediamo possano essere interessanti artefatti progettati conoscendo le teorie che descrivono i modi in cui la mente comprende e l’individuo agisce, perché, di conseguenza, permettono agli utenti di indagare i motivi dei loro comportamenti in un ambiente interattivo. D’altronde, quanto riscontrato da Ramachandran e Hirstein sull’emozione che deriva da immagini ambigue è certamente estendibile ad altri tipi di esperienze, comprese quelle della dinamica di interazione: apparentemente, la parte di cervello che trasforma segnali percettivi in emozioni è indifferente al canale sensoriale dal quale arrivano gli stimoli.
Non è certo nuovo l’uso, nell’interaction design, di competenze di psicologia, pensiamo alla psicologia della Gestalt: raggruppare elementi per prossimità o somiglianza è un principio alla base del design di interfacce.
D’altra parte i designer hanno sempre applicato le loro conoscenze sulla percezione in modo empirico: cioè attraverso l’osservazione di esperienze precedenti e la progettazione iterativa. Anche nei pochi casi in cui vengono applicate in modo conscio e diretto teorie cognitive e percettive, questo avviene esclusivamente nei dominii della vista, dell’udito e del tatto, ma non del comportamento. Infatti, conoscenze appartenenti ad altri dominii, come appunto quello delle scienze del comportamento ma anche delle teorie dell’emozione o dei fenomeni descritti dalla psicologia sociale, vengono utilizzate esclusivamente come strumento di misura della qualità (di prodotti e servizi), piuttosto che come strumento di design.
Noi crediamo che l’applicazione cosciente di queste conoscenze al design e, in questo caso specifico, al gioco, possa contribuire alla produzione di giochi diversi, magari anche più interessanti. In altre parole: vogliamo capire se si può rendere il gioco un mezzo di comunicazione più efficace, avvalendosi consciamente delle più aggiornate conoscenze riguardo ai modi in cui la mente percepisce, ragiona e apprende.
La dissonanza cognitiva
La teoria della dissonanza cognitiva, introdotta da Festinger nel 1957, è centrale in questa ricerca perché è stata utilizzata dai nostri studenti come strumento di design per il loro gioco. La dissonanza cognitiva è il fenomeno per il quale un individuo percepisce la discrepanza tra le proprie cognizioni, le proprie credenze e conoscenze e il proprio comportamento. Questa discrepanza, a proposito di un ambito o comportamento specifico, è rappresentabile dal rapporto di magnitudine tra la somma delle cognizioni incoerenti fratto la somma delle cognizioni coerenti. Un esempio tipico è l’ambito di acquisto di una macchina nuova: nell esempio, un soggetto, nella scelta tra un auto di lusso che costa molto, ha consumi elevati ma un grande appeal estetico e di comodità, e una utilitaria usata, che costa poco, ha gli interni consumati e un brutto colore, sceglie la prima opzione. A questo punto la magnitudine della dissonanza cognitiva percepita sarà data dalla somma degli elementi discordanti con la scelta, ovvero il risparmio dell’utilitaria e gli alti consumi della macchina di lusso, fratto gli elementi concordanti, ovvero la bruttezza dell’utilitaria e la comodità e la bellezza dell’auto di lusso. Festinger sostiene che il soggetto sarà portato a modificare le proprie percezioni per ridurre quanto possibile la magnitudine, per esempio dando grande importanza ai fattori estetici oppure decidendo che l’impatto ambientale della propria automobile è irrilevante.
Quindi, ogni volta che un individuo elabora due o più idee incoerenti od osserva in sé stesso due o più comportamenti incoerenti, si allontana da una situazione emotiva ideale che desidera riacquistare. In altre parole, gli individui che sperimentano la dissonanza cognitiva iniziano un processo attivo di elaborazione per superare il disagio derivato. Più grande è l’incoerenza e maggiore è lo stato di agitazione e la motivazione a ridurre la dissonanza. Festinger, nella formulazione della teoria, insiste sul drive, sulla spinta alla riduzione della dissonanza come modificatore del comportamento degli individui e delle loro percezioni, sostenendo che la dissonanza cognitiva abbia un effetto simile alla sensazione di fame: le persone non “preferiscono” mangiare ma sono istintivamente “spinte” a cercare di nutrirsi.
Nel suo modello Festinger distingue tra nozioni o comportamenti reciprocamente irrilevanti e rilevanti: all’interno di quelli rilevanti possiamo trovare coerenze e incoerenze che accentuano o mitigano la dissonanza. Trasferire questo concetto nel design di un prodotto è fondamentale per l’applicazione della dissonanza cognitiva come modello per indurre un comportamento. Per fare ciò possiamo usare il paradigma della libera scelta descritto da uno degli allievi di Festinger, Jack Brehm (1956), che si riassume in quattro punti:
- La dissonanza cognitiva è strettamente collegata al comportamento e si verifica in presenza di decisioni.
- La dissonanza è ridotta da un cambio di percezione della differenza tra la decisione presa, favorendola, e la decisione che non è stata presa, accentuandone i lati negativi.
- Più la decisione è difficile e maggiore sarà la dissonanza, poiché più le scelte possibili sono favorevoli più è difficile aumentare la percezione di differenza che giustifica la scelta effettiva.
- La dissonanza cognitiva è un fenomeno continuo e pervasivo poiché è presente in tutte le scelte.
Il raggiungimento di uno stato emotivo soddisfacente—che non coincide per forza con il “divertimento” come vedremo più avanti—giustifica per noi l’attività di gioco; questa premessa ci permette di capire come questo modello cognitivo sia applicabile nel game design, come motore di attuazione del gioco. Secondo la definizione che adottiamo e come descritto nel successivo paragrafo, progettare un gioco è determinare un comportamento; la dissonanza cognitiva ci dà una mappa di come vengono sviluppati i comportamenti in funzione della percezione e per questo può essere usata come modello per la progettazione.
La definizione di gioco
Nel 1966 debutta il gioco da casa Twister, progettato Charles F. Foley e Neil Rabens e pubblicato da Milton Bradley (MB). Il gioco consiste in una pedana contrassegnata da cerchi colorati e una tavoletta che assegna in modo casuale piedi e mani dei giocatori a uno dei colori sulla pedana. A seconda di quanto indicato sulla tavoletta i giocatori devono posizionarsi sulla pedana, finendo per intrecciarsi in difficili posizioni da contorsionista. Chi perde l’equilibrio viene eliminato dal gioco.
Twister è un gioco straordinariamente potente per dimostrare la differenza tra meccaniche di gioco e dinamiche emergenti: in Twister infatti, sebbene si tratti di un prodotto adatto a un pubblico di tutte le età, è innegabile l’appeal erotico per i giocatori adulti e adolescenti. Questo aspetto del gioco, che ha certamente contribuito al suo successo e che immediatamente viene richiamato alla memoria quando si pensa a Twister, non è in nessun modo indicato nelle regole.
Questo esempio viene ripreso da Frasca nella sua tesi di dottorato (2005). Frasca elabora il concetto di gioco come “altro”, rispetto alle regole, nel seguente modo: “Cosa sono i giochi? Di cosa sono fatti? Una prima riflessione superficiale potrebbe farci dire che sono fatti di oggetti fisici, come palloni, reti, gettoni e regole. Ma che ruolo ha l’attività del giocatore? Questa attività fa parte di ciò che chiamiamo gioco?”; a queste domande Frasca risponde tramite le parole di Espen J. Aarseth (2001): “I giochi sono sia oggetto sia processo, non possono essere letti come un testo o ascoltati come una musica, devono essere giocati. L’attività di gioco è fondamentale, non incidentale come nella lettura e nell’ascolto. Il coinvolgimento creativo è un ingrediente necessario all’attività di gioco” (citato in: Frasca, 2005, pp. 19).
Un altro aspetto della definizione che abbiamo adottato riguarda le potenzialità dei giochi come mezzi comunicativi. La teoria del gioco come strumento di apprendimento non è certo nuova. Secondo la tradizione, circa duemilacinquecento anni fa, il filosofo cinese Confucio avrebbe detto: “Sento e dimentico, vedo e ricordo, faccio e capisco”. Questa relazione tra apprendimento e interazione è approfondita, nell’ambito dell’interaction design, da Martin Pichlmair nella sua tesi di dottorato Designing for Emotions (2004): “Le persone non desiderano semplicemente portare a termine un compito, desiderano sapere come sono riuscite a portarlo a temine. Un utente soddisfatto non è colui che raggiunge prima l’obiettivo, ma colui che l’ha raggiunto con piacere” (p. 17); con questa affermazione si sottintende che il lato emozionale è collegato al processo, e che il design dell’interazione, il modo in cui il compito è portato a termine, è ciò che comunica il messaggio e qualifica l’esperienza. Pichlmair aggiunge “La comprensione avviene sempre attraverso una richiesta attiva, interattiva, alla struttura narrativa proposta . . . se l’obiettivo del designer è evocare emozioni nell’utente, l’esperienza deve essere strutturata per permettere che ciò avvenga” (p. 160). Il messaggio non è conoscibile osservando la struttura ma interagendo con essa, usandola, permettendo cioè che l’esperienza abbia luogo e che il messaggio sia evocato nella mente dall’utente.
Queste osservazioni sono riscontrabili nei giochi comunicativi raccolti in Newsgames: nel 2010 Ian Bogost, Simon Ferrari e Bobby Schweizer hanno dato seguito al gioco politico di Gonzalo Frasca, September 12th 2, raccogliendo in un saggio un’analisi dei giochi che propongono, tramite le loro meccaniche, un’interpretazione di fatti d’attualità difficilmente rappresentabili con mezzi non interattivi.
Esempi di gioco
Raccogliamo qui, a scopo esemplificativo, una selezione di giochi che non fanno del sistema obiettivo/sfida/punteggio/gratificazione il centro del loro design. Volendoli catalogare tradizionalmente, questi giochi appartengono a generi del tutto diversi: esplorativi, sandbox 3, concettuali, narrativi, newsgames etc. La caratteristica comune è l’assenza di un obiettivo di gioco esplicito o la presenza di un obiettivo triviale, sostanzialmente slegato da ciò che rende il gioco meritevole di essere giocato.
The Path è un videogioco scritto e prodotto da Tale of Tales nel 2006. Il gioco è una rivisitazione in chiave moderna della favola di Cappuccetto Rosso, reinterpretata attraverso i diversi momenti della vita di una donna, dall’infanzia, attraverso l’adolescenza fino alla maturità. Il gioco consiste nella semplice esplorazione di un ambiente tridimensionale che riproduce il sentiero (da cui il titolo) che porta a casa della Nonna. Il giocatore è libero di abbandonare il sentiero e andare alla ricerca del proprio Lupo, un’incarnazione dei pericoli e delle tentazioni che cambia a seconda della fase di vita che si sta interpretando (a una bambina e a un’adolescente corrispondono pericoli e tentazioni diversi). Il gioco è avvincente perché traccia un parallelo tra il violare le regole di gioco—l’obiettivo esplicito è la casa della Nonna—e violare le consuetudini, le leggi e il buonsenso della vita reale.
Minecraft
è un videogioco di straordinario successo progettato e sviluppato da Markuss Persson nel 2010. Si tratta di un gioco di costruzioni tridimensionale in un mondo interamente costituito da blocchi cubici. Il giocatore è libero di esplorare il mondo, scavare e costruire usando tutti i materiali a disposizione: pietra, terra ma anche materiali complessi, che richiedono ricerche e sperimentazione, come mattoni, torce, vetro etc. Il gioco è interessante perché fa leva sul desiderio di scoperta e naturalmente sul piacere tipico dei giochi di costruzioni tradizionali.
Sleep is Death è un gioco ibrido, in parte gioco di ruolo in parte videogioco, progettato da Jason Rohrer nel 2009. Il gioco è diviso in due parti: una parte editor per il giocatore che progetta l’avventura e una parte di gioco “classico” per il secondo giocatore. Una volta che il primo giocatore ha realizzato tutte le grafiche per l’avventura, il gioco comincia. Il secondo giocatore prende il controllo di un personaggio ed è libero di interagire con il mondo di gioco attraverso ogni tipo di azione digitabile sulla tastiera. A ogni azione del secondo giocatore, il primo giocatore dovrà far corrispondere una reazione coerente e far progredire la narrazione. In questo caso il gioco funziona come un teatro d’improvvisazione, narrativo per un giocatore e interpretativo per l’altro: il piacere è derivato dallo spettacolo che i due giocatori si offrono reciprocamente.
RaRa Racer
è un gioco concettuale sviluppato e progettato da Stephen Lavelle nel 2008. Il gioco si presenta come un finto filmato di YouTube, della durata di un paio di minuti, che rappresenta una partita nel formato del Let’s Play 4. Appena il gioco comincia, il filmato parte e una voce commenta la partita in corso. La particolarità sta nel fatto che la partita nel filmato è in realtà giocata dal videogiocatore vero, andando a modificare il contenuto della clip e quindi anche il commento vocale che lo accompagna. Il gioco è affascinante proprio per questa sua ambiguità: il momento in cui si capisce che il filmato nel gioco è interattivo, e quindi è il gioco stesso, è sorprendente; così come quando il gioco si conclude al termine della durata del filmato, come se il giocatore (cioè noi, ma in teoria colui che ha registrato il filmato) avesse deciso di terminare la partita.
Memory Reloaded è un videogioco progettato da Paolo Pedercini nel 2006. Il gioco si presenta come un tradizionale memory in cui bisogna associare coppie di carte uguali scegliendole da un set di carte coperte. La particolarità del gioco è che ogni tessera rappresenta un contenuto controverso o comunque soggetto a interpretazione ambigua. Questi contenuti vengono rappresentati in modo diverso ogni volta che vengono scoperti: ad esempio la stessa carta può rappresentare “la fame nel mondo” o “il problema del sovrappopolamento”, mentre un’altra è “I liberatori Talebani” (dall’occupazione sovietica) e “I terroristi Talebani” (dell’11 Settembre). Il gioco è interessante perché fa riflettere sul concetto stesso di memoria, dimostrando come anche un gioco (infallibile, almeno nel concetto di memory tradizionale) possa trarci in inganno tramite l’uso della retorica.
SETE
Sperimentazione sul campo
Nel Maggio del 2011 abbiamo organizzato un workshop di game design per il corso del secondo anno di Laurea Magistrale in Design della Comunicazione. Il workshop, chiamato “Indovina Come?” chiedeva agli studenti di progettare e “prototipare” un gioco da tavolo, in cinque giorni, utilizzando una dinamica cognitiva tra quelle presentate come fonte di ispirazione.
Il gioco sviluppato dagli studenti Valerio Pellegrini, Tommaso Trojani, Giorgio Uboldi e Santiago Villa si chiama SETE! ed è apparentemente un gioco gestionale in cui quattro fazioni si contendono una risorsa comune, con l’obiettivo di sopravvivere il più a lungo possibile.
Ogni giocatore possiede un determinato budget di acquisto e un set di strutture che producono denaro e consumano la risorsa comune: l’acqua. Quando l’acqua sta per finire, i giocatori possono darsi battaglia per sottrarsi l’un l’altro le ultime gocce disponibili. Il gioco termina quando uno dei giocatori resta completamente “a secco”.
La dinamica cognitiva che gli studenti hanno deciso di affrontare è la “dissonanza cognitiva”. Come spiegato precedentemente, la teoria della dissonanza cognitiva descrive come, in un individuo, due idee in conflitto tra loro provochino un comportamento che tende a ridurre questo conflitto, come nell’esempio classico della volpe e l’uva: la volpe, non potendo raggiungere il grappolo, si convince che l’uva è acerba.
Per implementare questo concetto all’interno del gioco gli studenti hanno attribuito alla risorsa comune un duplice valore. L’acqua, infatti, è vera—una brocca da due litri viene posta al centro del tavolo all’inizio del gioco—e può essere sia consumata per soddisfare le richieste delle strutture di gioco—fattorie, fabbriche e edifici—sia per soddisfare la sete reale del giocatore.
Durante la partita, questa seconda possibilità viene resa sempre più probabile dal regolamento che obbliga, tramite carte imprevisto e azioni giocatore, a ingerire piccole quantità di sale, acciughe e salumi piccanti.
Il finale del gioco è volutamente debole: in verità le partite raramente arrivano alla conclusione secondo regolamento. Diversamente, il gioco è interessante perché permette di osservare l’evoluzione delle strategia di gioco in base allo stato fisico del giocatore. Un giocatore assetato è portato a sacrificare una pianificazione di risparmio dell’acqua—che fino a poco prima sembrava perfettamente logica—perché la dissonanza tra bisogno reale e bisogno di gioco viene compensata da una rivalutazione strategica.
Il bisogno fisico è quindi in conflitto percettivo e le regole del gioco sono tali per cui il bisogno fisico si sviluppa in concomitanza col bisogno di risorse all’interno del gioco.
Nel dettaglio, e in riferimento a quanto spiegato precedentemente sulla dissonanza cognitiva, il gioco è progettato per determinare un comportamento tramite una valutazione che non è razionale, come lo sarebbe una decisione orientata al raggiungimento dell’obiettivo di gioco, ma determinata invece da altre dinamiche. Infatti, il giocatore nel suo turno viene posto davanti a una serie di scelte che determinano quanta acqua verrà consumata dalle strutture di gioco e conseguentemente dal giocatore vero e proprio. Ogni scelta implica una rivalutazione strategica o percettiva per tentare di ridurre la dissonanza: il giocatore assetato che decide di bere dovrà giustificare a sé stesso la scelta di non aver conservato l’acqua per le strutture di gioco, e viceversa.
Un altro comportamento documentato è quello del giocatore che desidera essere sottoposto alla punizione del cibo salato per giustificare una precedente scelta che ha comportato il consumo di acqua dal bicchiere:
Ancora una volta il desiderio di ridurre una dissonanza determina un comportamento di gioco, anche se anti-intuitivo rispetto all’obiettivo dichiarato, cioè risparmiare acqua ed essere l’ultimo a restare in gioco.
Il gioco presenta il conflitto al giocatore lasciando che sia lui a trarne un’osservazione sul proprio modo di ragionare, giocare e attribuire un valore alle cose. In questo senso SETE! è anche una riflessione sul concetto di convenzione e su come l’attribuzione di valore nella società debba mediare con le caratteristiche fisiche delle persone. Questo risultato, il design di questo tipo di esperienza, è precisamente ciò che era stato richiesto dal workshop e, vista la qualità del gioco, almeno in parte dimostra la validità dell’approccio: il concetto e le caratteristiche del fenomeno che chiamiamo “dissonanza cognitiva” sono fonte di ispirazione e strumento di design, nonché giustificazione del motivo per cui il gioco è interessante.
Conclusioni
Nel caso dell’applicazione della dissonanza cognitiva come modello di game design, il rapporto tra percezione, conoscenza ed emozione è il seguente: percezione e conoscenza sono i due piani sui cui viene impostato il valore delle risorse di gioco, in funzione dell’obiettivo (risparmiare acqua per vincere) e delle caratteristiche fisiche dei soggetti (bere per dissetarsi), l’emozione nel gioco è scatenata dal disagio provato dal conflitto tra percezioni e informazioni nella forma di regole del gioco. Infine, per quanto riguarda il comportamento, l’attuazione è data dal desiderio di ridurre la dissonanza cognitiva e godere di uno stato di equilibrio emotivo.
Se possiamo dimostrare che l’applicazione di questo modello può produrre giochi interessanti, allora è ragionevole trarre conoscenza dalle scienze cognitive e dalla psicologia sociale per formulare approcci di design al gioco. La motivazione, ciò che spinge al gioco alla messa in atto e all’azione di gioco, non è il raggiungimento dell’obiettivo (che pure è presente) ma altro: in questo caso è la risoluzione della dissonanza, la conseguenza del drive derivato dalle percezioni discordanti, cioè il desiderio di ridurle.
Abbiamo quindi un modello di gioco a esperienze, cioè istanze di gioco che sono giustificate da una struttura che invita alla messa in atto del gioco. Questo invito, come detto, è descritto in letteratura nelle forme del reward e degli obiettivi di gioco. Noi vogliamo discostarci da questa interpretazione e l’applicazione della dissonanza cognitiva come “conflitto” —non tra giocatore e giocatore o giocatore e sistema, ma tra le percezioni stesse del giocatore—è la dimostrazione che un processo di questo tipo è possibile.
Crediamo che il successo dei titoli citati sia un’indicazione di un approccio valido alla progettazione di nuovi giochi e videogiochi originali non finalizzati a un obiettivo: è ragionevole pensare che una maggiore consapevolezza dei modi in cui la mente affronta il problem solving, le situazioni sociali e in generale i problemi legati alla percezione possa essere utile ai game designer per proporre estetiche di gioco interessanti e diverse dal rapporto compito5-premio.
Crediamo inoltre che il risultato di SETE! sia un ottimo incoraggiamento riguardo alla riproducibilità del metodo di game design che deriva le meccaniche di gioco dall’osservazione di dinamiche cognitive. Certamente progettare giochi digitali basati sulla percezione sarà più difficile rispetto a giochi da tavolo perché ci si allontana dalla sfera sensoriale pura, fisica, di interazione con il corpo. D’altra parte, il rapporto tra dinamiche cognitive e design di videogiochi tradizionali è in larga parte inesplorato, e nuove tecnologie 6 ci permettono di sperimentare con metodi di input/output non tradizionali, mettendo in gioco, oltre all’udito e alla vista, altri sensi come la propriocezione e il tatto.
Attualmente stiamo facendo nuovi test su artefatti progettati secondo questo approccio per verificare gli effetti a breve e lungo termine relativamente a intrattenimento, design delle emozioni e efficacia della comunicazione.
Le scienze cognitive sono in rapido sviluppo ed evoluzione e crediamo sia molto importante, nel campo dell’educazione, dare agli studenti occasione di sperimentare come le nuove conoscenze nei campi della psicologia, della linguistica, della sociologia e degli studi della percezione possano avere effetto sul loro lavoro.
Riconoscimenti
Al Politecnico di Milano il centro per gli Studi su Interazione e Percezione (SIP) ricerca l’applicazione di percettologia, psicologia sperimentale e scienze cognitive al design per la comunicazione e, in particolare, all’interaction design. Il laboratorio indaga la relazione tra qualità dell’esperienza utente e caratteristiche percettive e cognitive dell’artefatto, ovvero sia dal punto di vista della progettazione sia dal punto di vista della misura della qualità. Una parte della ricerca del SIP è decata alle ricadute sul game design delle competenze sviluppate. Ringraziamo tutti gli studenti che hanno partecipato al workshop “Indovina come”, per il loro ottimo lavoro, per essere stati nostra fonte di ispirazione e averci aiutato a credere nella bontà della nostra ricerca.
– Tutte le immagini appartengono ai rispettivi proprietari e sono usate ai soli fini accademici. –
Riferimenti
Aarseth, E. (2001). Computer Game Studies, Year One. Game Studies, 1(1). Disponibile online: http://www.gamestudies.org/0101/editorial.html
Bogost, I., Ferrari, S. & Schweizer, B. (2010). Newsgames: journalism at play. Cambridge, MA: MIT Press.
Brehm, J.W. (1956). Post-decision changes in desiderability of alternatives. Journal of Abnormal and Social Psychology, 52, pp. 384–389.
Festinger, L. (1957). A Theory of Cognitive Dissonance. Palo Alto, CA: Stanford University Press.
Frasca, G. (2005). Play the Message: Play, Game and Videogame Rhetoric. Tesi di dottorato. IT University, Copenhagen, Danimarca.
Pichlmair, M. (2004). Designing for Emotions – arguments for an emphasis on affect in design. Tesi di dottorato. Technischen Universität, Vienna.
Ramachandran, V. S. & Hirstein, W. (1999). The Science of Art: A Neurological Theory of Aesthetic Experience. Journal of Consciousness Studies, 6(7), pp. 15–51.
Salen, K. & Zimmerman, E. (2003). Rules of Play. Game Design Fundamentals. Cambridge, MA: MIT Press.
Ludografia
Graveyard, Tale of Tales, Belgio, 2008
Memory Reloaded, Molleindustria, Italia/USA, 2006
Minecraft, Mojang AB, Svezia, 2009
Peggle, PopCap Games, USA, 2007
Rara Racer, Increpare, Regno Unito, 2008
Sleep is Death, Jason Rohrer, USA, 2010
Septermber 12th: a Toy World, Newsgaming, Uruguay, 2003
The Path, Tale of Tales, Belgio, 2006
Twister, MB Milton Bradley, USA, 1966
- Giochi multi-giocatore online massivi, in inglese massive multiplayer online games. ▲
- September 12th è un gioco sulla guerra al terrorismo in cui viene chiesto al giocatore di eliminare i terroristi in una città del medio oriente. I terroristi sono ben riconoscibili ma le armi a disposizione sono estremamente imprecise, finendo per uccidere sempre un certo numero di civili e, di conseguenza, provocare la nascita di nuovi terroristi. ▲
- Sono considerati giochi sandbox quelli che includono meccaniche creative di modifica dei livelli e degli attori di gioco: normalmente non è possibile definire un “modo giusto” in cui un gioco sandbox debba essere giocato. ▲
- Let’s Play è un tipo di contenuto generato dagli utenti, tipicamente condiviso su piattaforme come You Tube, in cui si video-registra un videogioco mentre viene giocato e commentato. ▲
- L’inglese task rende meglio il significato. ▲
- Pensiamo, ad esempio, ai sensori tridimensionali diretti o indiretti come telecamere a infrarossi, giroscopi, accelerometri etc. ▲
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